Ricordo di Renzo Baldo

Nelle sue passeggiate sui monti dell’Alto Garda, il professore arrivò un giorno anche al nostro eremo. La prima volta che ci eravamo visti, molti anni prima, lui era il responsabile della pagina culturale di uno dei due quotidiani di Brescia, mentre l’ultima volta eravamo insieme nella giuria di un Premio letterario legato alla poesia in dialetto bresciano.

Poi ci eravamo persi di vista. Fu un incontro gioviale: sorridente e profondo il professore; ricche di cose da dire le nostre due mogli. Non seppi mai se la visita fosse stata fortuita o voluta, ma di certo ne uscimmo con un invito a pranzo a casa sua, pochi metri quadri a Sasso, non troppo distante da noi. Sasso è una bella frazione montana di Gargnano, giusto prospiciente il massiccio del vulcano spento che si eleva sulla sponda veronese del Garda e che, certo con un’ombra di divertita constatazione da parte del professore, porta il suo stesso nome: Baldo.

Lo spettacolo della luna che sorge dietro la cima, innevata d’inverno, e rosso fuoco al tramonto fino al violaceo, e virante al grigio cinereo allo scendere della sera, la calma fresca dei monti e luccicante delle luci, sulle rive, nelle notti limpide d’estate, devono essere state tra le cose di cui maggiormente ha goduto, sollevando la testa dai libri, camminando sui sentieri a mezza costa tra la montagna e l’acqua, o durante qualche sosta contemplativa. Il professore aveva un senso acceso del sacro, e nella loro laicità le sue poesie ne portano traccia profonda e testimonianza. Non era il sacro della religione che divide, ma quello della vita che unisce, come nella sua orazione funebre qualcuno ha voluto ricordare.

Di cosa parlammo in quel pranzo d’incontro a casa sua? Non è molto importante per voi lettori, ma sappiate che il professore, già ultraottantenne, tenne a lungo il punto e mi sovrastò di testa e di spalle, se non di spirito, con una capacità di ascolto, però, e di rispetto, amichevole e semplice. Così lo ricorderemo, mia moglie ed io: seduto a conversare e poi su qualche sentiero, ancora in cammino.

Invito aperto a tutti

Lunedi 4 Dicembre ore 20.00- 21.00 Grande occasione di ascoltare gli Insegnamenti/ Conferenza della Maestra Zen: Rev. Yūshō Sasaki Roshi direttore Soto Zen Europa (Sokanbu)

Tema: “Come approcciare lo Zen Oggi: Istruzioni per l’uso”
Introduce il Maestro Tetsugen Serra.

Lo Zen consiste essenzialmente nella pratica del diventare intimi con se stessi. Come ritrovare questa intimità oggi?

Domanda: Sembra che il Giappone abbia una cultura più ritualistica e che in Europa ci sia meno familiarità a volte persino un rifiuto verso l’aspetto cerimoniale.
Rev. Yūshō Sasaki Roshi: “Ora che lo Zen è arrivato in Europa, puoi scegliere quale parte vuoi sottolineare dello zen”.
Una conferenza-Un Dharma talk- APERTA A TUTTI.
Vi aspettiamo per cogliere questa unica occasione.
Ingresso libero.

Lunedi 4 Dicembre ore 20.00- 21.00

Monastero zen Il Cerchio Via dei Crollalanza 9, Milano – Zona Navigli (MM2 Romolo)
Tel: 333 7737195 / 02 8323652
http://www.monasterozen.it
• cerchio@monasterozen.it

A beneficio di tutti gli esseri

Sediamo in silenzio
sotto la pioggia che tambureggia
sui lucernari, al fragore

delle auto sull’asfalto fradicio
tra le catene di pensieri
e i colpi di tosse

“Ogni cosa è la voce del Reale”
forma del presente che avviene

noi stessi forma, coscienza
e dolore di gambe

fugace e vero.

Nemmeno a peso d’oro
può essere diviso in giusto
e sbagliato

né con un capello
in terra e cielo.

25 novembre: zazen

Date le difficoltà logistiche previste alla pagina COMUNICAZIONI, la pratica intensiva del 25 Novembre si terrà a Rezzato, dalle 8 alle 13. Chi fosse intenzionato a partecipare ci faccia sapere entro venerdì mattina. Sempre alla pagina COMUNICAZIONI le modalità di contatto.

L’acqua alta di Francesco Sassetto

Francesco Sassetto
Stranieri
ValentinaPoesia
pag.120, 2017
12€

Nella diversità dei nostri percorsi esistenziali, molti sono i punti di contatto fra Francesco Sassetto e me. Come lui ho frequentato Ca’ Foscari e conosco Venezia per averla abitata e vissuta quattro anni, girandola in lungo e in largo e respirandone il suo percettibile ritrarsi, la china inarrestabile del suo svuotamento. Come lui ho insegnato per lunghi anni nella scuola italiana, vivendone le contraddizioni, che dovrebbero essere centrali in una comunità sociale sana, protesa ad allargare l’area della sua coscienza, e che invece si rivelano assolutamente marginali, chiuse come tante monadi senza finestre, in drammi individuali di incalcolabile inaridimento sociale. Ho poi scelto il CTP, centro territoriale permanente per l’istruzione degli adulti, ovvero ho insegnato la lingua italiana agli stranieri, tutti immigrati: asiatici della Cina, Pakistan, Bangladesh, India, est europei e africani delle più varie etnie e nazionalità. Una varia umanità che vista da vicino rivela la nostra stessa cifra esistenziale, la stessa assoluta spinta a vivere che non conosce confini, e nel bene e nel male rappresenta uno specchio – a volte fin tropo benevolo – in cui ci possiamo specchiare, senza più miti e malintesi. Scrivo poesia, infine, in italiano e dialetto. Un dialetto della marca bresciana, la più orientale della Lombardia, al confine con il Veneto, che con il Veneto ha e ha avuto intersezioni sociali, politiche, economiche e linguistiche ampie e profonde, tanto che posso leggere direttamente il veneziano di Sassetto in originale, come una semplice variante del mio, anche se storicamente sarebbe il mio a poter essere una variante del suo, tante e tali sono state le implicazioni della Serenissima sul territorio bresciano, a cominciare dalla Magnifica Patria sulle rive del comune lago di Garda.

In questa apparente divagazione, ho già segnato le coordinate umane e culturali dell’opera di Francesco Sassetto, divisa in tre sezioni: Venezia e la sua diaspora, il suo declino umano, la prima. Il dissidio umano e sociale, la seconda, di chi nel sociale dovrebbe agire come lievito madre e invece si scopre a sopravvivere nello smarrimento generale, che si riveste di ferocia nei rapporti di persone ridotte a individui. Tutti in trincea, tutti vittime, tutti carnefici. Infine la terza, immersa nel rapporto con gli “stranieri”, titolo dell’opera intera, paradigmatico di quanto straniera sia ormai la vecchia e nuova Venezia, ovvero quelli che erano i nostri luoghi dell’anima, straniera la scuola, il posto di lavoro, i rapporti sociali, ostili, diffidenti, immiseriti.
E stranieri, i meno stranieri forse, tutti quei volti che faticosamente imparano ad articolare i suoni della nostra terra, ma si tengono stretti, come tutti i migranti, come gli italiani nel mondo, come i residenti che si sentono invasi, i segni identitari che fanno loro sapere ancora chi sono.

È ben questo il dramma: spasmodici segni identitari attorno ai quali gli esseri umani s’arroccano e si dilaniano, pena l’horror vacui della perdita degli elementi con cui definiamo noi stessi e la nostra vita. Arroccamento che in definitiva è arroccamento attorno all’idolo di un proprio “io” o di un proprio “noi”, separato e in competizione con il resto del mondo. E tutto questo in luogo di una scoperta vera del nostro sé, che dimora nel profondo di ognuno di noi e relativizza i segni identitari a semplici, godibili, rispettate appartenenze, sovrastate per potenza e profondità dall’appartenenza a un solo vero segno identitario, quello dell’unica vita che ci costituisce e circola in tutti e in tutto.

Stando come stanno le cose lo scoppio di una guerra tra poveri, cavalcata per di più da chi ha interesse a farlo, è facilmente ipotizzabile. Anzi è già in corso, e Sassetto non può che giungere, con il pessimismo della ragione a questa conclusione, benché con l’ottimismo della volontà il suo libro stesso, che denuncia le contraddizioni del nostro vivere e solleva interrogativi ancora senza risposta, si batta per scongiurarla. Tutti non ci possono stare, tutti non possono essere asserviti a quella logica produttiva che li ha contribuiti a creare, in cambio del proprio posto al banchetto, anche se solo di briciole si tratta, e magari a danno di altri. Però in mare non si possono lasciare, e neppure nei lager libici. E lasciarli marcire nel deserto o nei luoghi di guerre che sparano con le nostre armi, luoghi di miserie che parlano anche con le leggi dei nostri mercati, coloniali e presenti, è forse possibile?
Domande che chiamano in causa le basi stesse del nostro vivere, la falsa coscienza di una società fondata sull’abbondanza, che è fame, povertà ed esclusione per molti, dentro a tutte le nazioni, in infernali gironi, via via più periferici e degradati. E ognuno acquattato, per la paura di perdere anche quel poco.

La poesia di Francesco Sassetto, in tutto questo non è un semplice veicolo di contenuti civili, come sempre è tacciata la poesia civile per ridurne il valore e il ruolo, bensì il suono stesso di una coscienza, commossa e ancor più partecipe, che elabora i suoni della parola. E qui il dialetto, che ha parte preponderante nell’economia del libro, che si estende fin dentro le composizioni in lingua, è forma e sostanza, immediatezza e schiettezza, presa diretta della realtà. È rifugio e atto d’accusa, punto di frattura che mentre rivela le sue basi identitarie, il bisogno e il senso di appartenere, ne denuncia tutti i limiti e tutte le esclusioni, rivolte, si badi bene, prima ancora che allo “straniero” fisico, al mondo interno che lo parla, da persona a persona, anzi da individuo a individuo come abbiamo scritto poc’anzi. L’esclusione che si compatta contro gli “stranieri” è già ben presente nelle nostre e loro miserie, nelle nostre e loro storie e nelle nostre e loro fratture sociali. In più di una pagina aleggia lo spirito di Spoon River e del suo microcosmo umano, che è nel contempo archetipo macrocosmo dell’animo. Lo ricorda l’andamento narrativo, anche se in terza persona, quasi prosastico del verso, ma diretto, icastico, rapido nell’enucleare con pochi tratti un personaggio, una situazione, un clima, una speranza, un fallimento, “un simbolo strappato dalla foresta dei simboli e inchiodato per sempre nell’anima”.

Claudio Bedussi

Voglio qui dirlo

Cari compagni, non solo l’abolizione
della proprietà privata è un miraggio
nel regno dell’io,

ma lo è la semplice fraternità,
uguaglianza e libertà.

Una società senza classi è un incubo
diurno nella psiche della percezione
separata dell’esistenza.

Eppure il sol dell’avvenire sorge
ogni giorno sulla terra

Accanto alla teoria, autrice del Capitale
c’è fin dall’origine la prassi di un ragazzo
e di una ragazza che entrano a mani nude
nel mercato, coperti di fango e di cenere.
E con ampio sorriso dicono:

“Il desiderio di possesso
è la maledizione della vita umana”.

*

Voglio qui dirlo con la massima semplicità
e chiarezza:

la pratica di consapevolezza
e di realizzazione non è un optional.

La pratica di realizzazione è la rivoluzione
di base necessaria a spazzar via la dominanza
di quel meccanismo psichico che va
sotto il nome di “percezione separata del sé”, incapace
di perseguire altro che ciò che crede
essere il suo profitto

impossibilitato a vedersi vita
e universo

e che distrugge ogni rivoluzione possibile,
inquina ogni comportamento e rapporto sociale,
vanifica ogni tentativo di cambiamento, rende
illusoria la politica, alienante la religione, feroce
la famiglia, psicotica l’economia, sì l’egonomia,
pigna secca ogni progresso, velleitaria
ogni riforma.

Causa prima di ogni guerra.

4 Novembre, non festa ma riflessione

Ho visto gli scaffali vuoti di colpo
all’annuncio della guerra del Golfo.
Non ci sono dubbi: come la folla
degli io impazziti in fuga calpesta
chiunque si trovi davanti, così
nella quotidiana guerra della
sopravvivenza ai danni dell’altro
si calpesta tutto quello che è necessario
calpestare per tirare avanti se stessi.

In caso di guerra futura o ti ammazzeranno
le armi o il tuo vicino se credesse
così di poter sopravvivere.

Oppure sarai tu a uccidere.

“Ogni posto ritenuto sicuro sarà preso
d’assalto, e la morte a causa del fuoco
nucleare sarà sostituita dalla morte
per la ferocia degli stessi sopravvissuti”.
(Fabio Mini, Che guerra sarà, Il Mulino, 2017)