UNA PAGINA PER L’ESTATE

L’eremo era silenzioso. Dove dopo il tramonto e prima dell’alba bruca il capriolo, caccia la volpe e la lepre fugge, sì qui dove il branco di cinghiali grufola nell’oscurità, spingendosi a ridosso dei muri, di giorno tutto è come sospeso nella calura. È un vecchio casolare, circondato dai boschi e fasciato da una verde radura consolidata dal sudore degli uomini. Una strada in basso delimita radura e romitorio. Un sentiero, dietro i muri, s’inerpica nel bosco verso la sommità della collina per una vista che vola sul Garda, attraversa tutta la pianura e arriva di là, ai grandi Appennini dell’Emilia.

A ogni passo
un fruscìo di lucertole
rari viandanti

Era come nelle calde ore della mietitura, nell’assolata campagna del mio dolce paese, tagliata dalla ferrovia e percorsa da treni come saette che lasciano dopo, lo stesso silenzio di prima. Un colore giallo maturo di spighe trebbiate domina la terra. Si sente odore di paglia, di rive sfalciate. Si vedono papaveri caduti e papaveri rimasti in crocchio o solitari, ai margini dei fossi, sui riporti di terra.

Sospeso oblìo
rotaie, quieti campi
Poi un rombo, un lampo!

Ma qui era il grigio biondo del fieno fresco, che in strisce regolari e a spirale, contrastava con il verde smeraldino dell’erba non ancora bruciata dalla vampa di luglio. I papaveri si erano fermati lungo la strada che porta all’eremo e l’odore che penetrava le narici era ancora quello dell’erba appena tagliata. Un confortevole senso di avamposto umano avvolto da forze incontrollate, respinte dove non arrivava lo sfalcio,

lama taglia erba
erba consuma lama, ehi
piccolo grillo, ehi!

mi ricordava cosa dovevano provare gli uomini del medioevo avvolti dalle foreste che li attendevano appena fuori dal villaggio, piccolo nucleo d’ordine circondato dal caos primigenio, con un bestiario solo immaginato che popolava le affabulazioni nelle lunghe sere d’inverno e nelle corte lune d’estate. Qui le notti senza luna sono profonde, ma c’è un firmamento nella volta celeste che le città possono solo sognare e lascia inermi e felici davanti all’infinito universo di luci siderali. Dal soppalco nella stanza della meditazione si accede facilmente, a mezzo busto, al lucernario sovrastato dal grande ciliegio morente. Un picchio rosso maggiore ha fatto il nido dove il tronco diventa il grande ramo centrale. Un’apertura certosina, grande, perfettamente circolare, da dove si sporge all’alba e al tramonto, a gola spiegata per chiamare il cibo, il rampollo unico della nidiata, col ciuffo rosso, il becco grosso, la testa che occhieggia e si ritrae. Le file regolari delle tegole, i colmi e i canali, scendono verso la valle – il tetto poderoso come una fortezza che declina – e portano lo sguardo, aereo, sui monti della Valvestino. L’animo non può più nulla, si respira.

Si esce sui tetti
come i gatti di notte
silenzi e stelle

In viaggio verso l’eremo, la strada passa tra gli agi e i tepori del Garda. Un’architettura di giardini e dimore che richiama l’Europa intera, forse il mondo, sulle sue rive. Geometrie verdi, spazi accurati, un lavoro meticoloso.

Ignaro sbuca
dalla siepe rasata
un fiore di zucca

Poi, una volta arrivati, sono i gesti essenziali che ti prendono e ti conducono le ore: aprire l’acqua, controllare la sete dell’orto, fare il giro delle sette porte con le chiavi in mano, sedere in meditazione, fare la lista dei lavori, preparare i pasti. Sedere a conversare con gli occasionali visitatori, un bicchiere di vino, un tè, una caraffa d’acqua. Camminare nel bosco, leggere un libro sotto il pino in estate. A seconda delle stagioni il tal gesto, il tal frutto, quel lavoro, quell’aria, i colori, i venti freddi e impetuosi del Nord o quelli caldi dall’anima liquida in basso. E le increspature talvolta, gli idilli con l’amata. Ma questa è un’altra storia. Una storia che continua e si ripete a ogni stagione, diversa e uguale. È fatta di parole e spazi silenziosi una pagina di rivista letteraria. È fatta di parole e silenzi la pagina preziosa della vita, ché rimanda a un sapore ineffabile e inesausto, universo e sogno, universo e uomo, dall’alba dei tempi. Qui disteso sotto il pino, posto a vedetta del passo, appoggio il libro aperto sul petto e guardo

se non capisci:
tre pomodori rossi
l’azzurro lago.

Un’amorevole scienza della mente

Oltre che una religione il buddhismo
mi pare un’amorevole scienza della mente

con le formule che sono i sutra,
con i laboratori che sono i gompa e i dojo
con le sperimentazioni che sono le pratiche,
con il campo di applicazione che è la vita quotidiana,
con le interazioni tra uomini e donne di ricerca che sono il sangha.

E con la com-passione
per sé e tutti gli esseri.

A Nagasaki fu nel 1945 9 agosto

 

“Auschwitz sta figliando nel mondo
non sentite l’odore del fumo?”

 

A chi nell’ombra della sera medita

A chi medita nel cuore della notte
e nella luce del giorno

A chi ogni giorno si alza a sorreggere la terra
e lavora alla sua umanità:

causa sorgente della Rivoluzione

A chi nel flusso naturale della vita e della morte
respira l’ineffabile Realtà che lo respira

Ode.

6 Agosto 1945: “Il mio Regno non è di questo mondo”

“Il mio Regno non è di questo mondo”
ha significati meno stellari
dei cieli.

E “date a Cesare quel che è
di Cesare” non vuol dire
lasciargli la Terra.

Questo mondo, questa terra,
è l’espressione e la sommatoria finale
di quel meccanismo psichico,

(frattura illusoria della Realtà omniforme
e ineffabile)

che chiamiamo “io”
e domina l’essere umano
con tutto il suo carico di sofferenze
imposte e subite.

Appena mitigato da un amore
che non ha basi psichiche
esperienziali e spirituali
sufficienti, nella maggior
parte dei casi, per estendersi
oltre sé stessi e la
propria cerchia.

Risveglio e compassione
danno sostanza psichica
ed esperienza all’amore

relativizzando l’io, da dominante
a processo servente, distinto
ma non separato:

Espressione autoconsapevole
della Realtà.

Questo è il Regno, questa la terra
promessa alla nostra vita
quotidiana.