5 Settembre 2019
Errata corrige: Il libro di Antonio Papagni è stato pubblicato nel 2017, non nel 2007.
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Giugno
Eccesso chiama eccesso. Dopo mesi di siccità, ecco un aprile e un maggio gelidi di nubifragi e grandine che hanno riempito serbatoi, fiumi e laghi, ma rallentato seminagioni, verde e messi. Poi il giugno più secco e bollente a memoria d’uomo su queste montagne, nel Paese, in Europa e in giro per il mondo. Trentanove gradi all’ombra su questo valico sotto i mille metri e niente pioggia, vuol dire una cottura lenta dell’erba, che infatti stenta. Rigogliosa sul pendio rivolto a nord e protetta dalla siepe, spenta e giallastra su tutti i dossi esposti al sole. Rada e irsuta, alternata a macchie aride nel resto di quello che era il prato smeraldino raccontato nelle cronache autunnali e primaverili. Ai tre sfalci che in giugno, nelle stagioni umide, avevamo già cumulato, se ne contrappone uno solo tra la fine di maggio e l’inizio di questo mese. Il surriscaldamento si tocca con mano anche nelle notti afose, con i lucernari e le finestre spalancate, dove solo il refrigerio di un refolo d’aria fresca giunge dai boschi, insieme al lontano latrare di un cane.
Spicca il verde dell’orto, bagnato con l’acqua misurata delle cisterne. In un mese, solo un temporale intenso, ma isolato, accolto danzando nell’erba. Tutto sta crescendo, grato dell’innaffio che giunge alle prime ombre del crepuscolo o alle prime luci dell’alba. Le zucche spontanee, ancora una volta, hanno foglie enormi e una crescita sorprendente. Sanno dove spuntare. Pomodori e zucchine ci hanno già regalato le loro primizie. I cetrioli, pur molto abili a nascondersi sono stati scovati da Anna ed affettati nell’insalata croccante della colla vicino a casa.
La rucola è già alla seconda produzione. Le patate stanno per fiorire, le verze s’allargano sotto il sole e nella propria ombra. I porri, impettiti, stanno cumulando anelli e fusto. Sedani, carotine e prezzemolo svettano e verdeggiano. Piselli, fagioli e fagiolini sono ormai un intrico attorcigliato alle reti e ai pali di sostegno. Fa da contrasto la piccola valeriana e il profumato basilico con il gigantesco radicchio a cespi, involuto nelle sue spire. Su tutto vegliano un alberello di ginepro che abbiamo raccolto da terra e dotato di un sostegno, un melo nano che ha deciso di produrre proprio l’anno che ho usato la motosega per ridurlo, il pruno con i pochi frutti scampati alla tempesta, prima che Anna intessesse la sua ragnatela di reti antigrandine. Ma il cuore dell’orto è la piantagione di fragole rifiorenti curata da Anna nella bella stagione e difesa in inverno contro il gelo intenso della montagna. Sono le fragole sorelline di bosco negli interspazi non coltivati. Sono i lamponi che crescono allo stato brado e occhieggiano ai margini del recinto. Sono le more e il ribes allineati sul sentiero che porta a casa.
Frutti succosi, dolci e aromatici alcuni, aciduli altri, ma tutti puntuali nella macedonia colorata di stagione che riempie la ceramica d’arte a centro tavola e ancora attende un pittore che ne colga l’anima, non bastando una fotografia e tante bocche che la gustano.
Sì, “che tempi sono questi, nei quali anche solo parlare di alberi sembra un delitto”…
Dietro il casolare, però affacciato al sentiero pubblico, dove regnava un caos di pietre, massi e rovi, ma anche un principio di giardinetto tra le rocce certosinamente creato da Anna, fanno ora bellezza allo sguardo del residente e del viandante tre gradini in pietra e un corto vialetto in porfido che contornano il giardinetto e lo mettono in squisito risalto. Anna aggiunge periodicamente altre essenze negli interstizi terrosi, tra nude pietre e rocce muschiate, emendando il suolo con terriccio scelto nel cavo umido degli alberi andati. Era il nostro passaggio a nord-ovest e l’abbiamo trovato. Ora da lì si accede al lato nascosto dell’eremo, adiacente al bosco, e si può girare tutto intorno alla costruzione, senza interruzioni. Si può agevolmente falciare e tenere pulito, lavorare al tetto in caso di necessità, arrivare facilmente alla baracca dell’acqua e tenere lontana l’acqua di superficie dai muri della casa. Fare ordine a misura d’uomo nel caos senza alterare il senso di questo angolo scivoloso, dove il piede non trovava appoggi sicuri e nessuna regolarità pareva possibile si è rivelato più difficile per la mente che per la mano. Sono dovuto entrare in profondità nello spirito di quel piccolo caos di poche spanne, per riuscire a trovarne alla fine una chiave.
Il nostro decimo e ultimo ritiro di pratica zen, per questa stagione, iniziata a settembre e terminata in questo mese, è stato il più esteso. Abbiamo raggiunto l’eremo ancora venerdì sera. Alle 4 c’è stata la levata, nella brezza dei boschi e nel silenzio della montagna. Ci siamo immersi nello zazen e nel kinin nel buio, solo rischiarato dalle stelle, finché il chiarore dell’alba e lo strillo insistito di un piccolo picchio, sono giunti a noi.
vecchio ciliegio
nel cavo strilla al cibo
un picchio implume
Con un piccolo di picchio erano iniziate le cronache nell’estate di due anni fa (vedere alla pagina HAIKU il primo testo in senso cronologico). Con un piccolo di picchio che ha strillato da mane a sera, dallo stesso nido, dello stesso ciliegio, forse il primo rampollo di quello che fattosi grande volò via, chiudiamo il ciclo dei dodici mesi e ci fermiamo.
Mentre sto scrivendo, primi giorni di luglio, anche questo piccolo ha spiccato il volo ed è andato, regalandoci come koan le parole di quel maestro zen, Ma-tsu, che ci chiede: “come può essere volato via?”.
Nessun luogo da cui partire
Nessun luogo dove andare
Che volete, la libertà di una piccola comunità laica o religiosa che si alza in unità d’intenti prima dell’alba, pratica meditazione fino a sera, anche per più giorni, a beneficio proprio e di tutti e poi torna a casa, alla propria vita quotidiana, alle responsabilità personali, familiari, civili, nel corpo fisico di una più vasta comunità, nessuno escluso – nessuno escluso! – è qualcosa di impagabile.
cinque nel dojo
due merli sulla siepe
che manca all’Uno?
Maggio
Si fa presto a dire eremo, come se l’isolamento fosse un fiore all’occhiello, un segno di distinzione, una sussiegosa prerogativa di separazione dal mondo, ma il mese comincia con la festa del lavoro e dei lavoratori ed è proprio in questi posti che rimangono le vestigia del lavoro più duro, le memorie dei lavoratori, montanari, contadini e carbonai, che per secoli hanno consumato schiena e pane sui nostri tratturi, su ogni pendio terrazzabile, dissodabile, coltivabile, trasformabile in spiazzo circolare sul quale edificare la catasta di legna da carbonare. Raccontano ancora i vecchi testimoni che da tutta la Valvestino salivano colonne di fumo delle carbonaie. I sacchi di carbone, poi, su carri trainati da buoi percorrevano la valle e risalivano faticosamente per questo valico, dove passava la vecchia strada comunale che scendeva verso l’alto e medio Garda. Dove ora c’è un bosco lasciato ai tronchi caduti o tagliati e abbandonati insieme alle plastiche di un lavoro alienato e senz’anima, crescevano piccoli campi di granturco, segàboi, prati magri, pascoli. I bambini correvano da una parte all’altra della valle, da un fienile all’altro, da un terreno ad un’erta per portare pane e companatico ai padri, ai fratelli maggiori, ai nonni.
Con un po’ di legna in spalla e una semplice cartella guadavano torrenti e risalivano pendii, anche un’ora di cammino per recarsi a scuola. Le donne a rastrellare sui fianchi scoscesi, la cucina, la stalla, la casa, il bucato, le maternità, i rammendi, un lavoro che non finiva mai.
Ora le cose sono cambiate proprio grazie al lavoro dell’uomo. Le colonne di fumo, magari, si sono trasferite dalle carbonaie alle fonderie delle valli contigue, ma è innegabile che l’evoluzione s’è portata via la fatica agra, la miseria diffusa, le malattie endemiche. È quindi bene che si sappia cos’è un eremo come il nostro: un territorio fisico e spirituale immerso nel territorio del tempo della più vasta umanità che lo abita, lo lavora e interagisce con l’umanità ancora più vasta del mondo intero. Ieri come oggi – anche se sempre pochi per scelta e in migratorio calo per tradizione – e da esso trae libertà, ispirazione e giusto sostentamento. La quintessenza del primo maggio.
Stavolta è il cane di un altro, relativamente parlando, “vicino” ad averci fatto visita, ululando lamentosamente. Si è fermato giù sulla strada sterrata, dove precipita il pendio del podere ed è rimasto immobile a guardarci, rivolgendoci quella nota prolungata di afflizione. Poi ha risalito la china e si è rifermato a pochi passi, mai cessando di guaire. Era un verso ancestrale su questa antica terra di “luparia”, lupi appunto.
Preoccupati ci siamo chiesti se qualcuno: il vicino, il cane stesso, stesse male, ma nessuna macchina o altro segno indicava una presenza umana e per quanto riguarda il cane, lentamente si è voltato e se n’è tornato a casa. In silenzio.
Dopo poche ore, mentre uscivamo dalla montagna, una bufera di grandine ha investito la provinciale che dalle terre alte riporta in basso alla strada gardesana occidentale. Le frazioni montane imbiancate, come nemmeno a Natale, sembravano barricate sotto i colpi e le sferze dei chicchi di ghiaccio. Dieci centimetri buoni ingombravano tratti di strada ruscellante. Nonostante la trazione integrale andavamo a passo d’uomo seguiti da altre vetture che s’erano accodate. Piante da frutto e orti, diversamente da noi qui già in produzione, essendo affacciati sul termosifone del Garda, venivano straziate le prime e sepolti sotto il ghiaccio i secondi. Solo sulle rive della grande acqua la furia si è calmata.
Con spatola e pennello, fuga dopo fuga, tra una pietra e l’altra il muretto è finito. E già l’occhio si volge attorno per il prossimo lavoro. Siamo coscienti che non sarà mai finita: finiremo noi, ma non i lavori. E basterebbero pochi mesi, come scrivemmo in esordio di Eremo di mezzo, perché la selva ritorni a ricoprire le nostre tracce. A che pro, dunque? Rileggete “Ottobre” e avrete un indizio.
Nell’orto Anna ha finito le prime seminagioni, teso ovunque le reti antigrandine e sistemati i fiori attorno all’eremo. A tempo perso ha curato la casa, la cucina, gli abiti da lavoro e il suo uomo. Come sopra, il lavoro di una donna non finisce mai. In compenso, spesso è più oscuro e meno riconosciuto. Ma quando sediamo in zazen non c’è più maschio, non c’è più femmina.
Stavolta i due giorni di zazen intensivo sono iniziati dopo un nubifragio, proseguiti con alternanza di nuvole e sole e terminati con squarci di sereno. Appena arrivati abbiamo preso vaschetta e catino e li abbiamo messi sotto la gocce che cadevano dal lucernario ostruito dalle foglie e “lavorato” dai nostri amici ghiri, ospiti irriducibili del tetto, nonostante le nostre ripetute campagne di dissuasione. Le loro gallerie nell’isolante del sottotetto sono un capolavoro di equilibrio e d’ingegneria. Si cammina sulle tegole per la pulizia periodica dalle foglie, come se sotto tutto fosse compatto e non il regno di gruviera dei roditori. Il vecchio Nino ci ha rivelato il suo modo di liberarsene: mangiarli. Alle nostre rimostranze ha spalancato gli occhi e ha candidamente aggiunto: “ma perché?! Sono dolci, sono buoni eh!”
Ora, se uno non ha mai praticato con lo stillicidio di una goccia che cade dal tetto, in troppo lenta, impercettibile regressione, “soffre di un grave caso di verginità”, tanto per citare Osborne di Ricorda con rabbia (anche se lui si riferiva ovviamente a un’esperienza ben più drammatica). Prima della riparazione – prontamente eseguita in giornata – o la pratica è anche la goccia, come pure lo spazio senza tempo fra una goccia e l’altra, oppure la goccia, che certo non si farà scordare, se non a tratti, nemmeno persi in qualche illusoria distrazione, ti martellerà implacabile tenendoti fuori dalla pratica, e tenendoti in attesa della successiva. Il che a ben vedere è un’altra forma di pratica.
Tre meditanti
una goccia dal tetto
quattro nel dojo
Una nostra amica ci ha scritto di andarla a trovare. così un pomeriggio abbiamo imboccato l’autostrada delle nostre ferie, che scavalca il Po, risale gli Appennini e trova un primo approdo in Lunigiana, al mare della Liguria e della Toscana. Stavolta, però abbiamo percorso la verde bassa bresciana, intensa di campi e vastissimi cieli verso l’hospice di una persona aggredita dal tumore e in plurimetastasi. L’abbraccio è stato intenso e caloroso. Parole e silenzi bene accolti, senza ombra di imbarazzi. Tutto era così evidente e vero. Le abbiamo regalato il libro Cinque Inviti di Ostaseski, ma alla fine è toccato a noi ringraziare, per l’umanità della persona e il sorriso dell’amica. Altro non voglio dire. La retorica è bandita.
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30 Aprile 2019
Aprile
Un cavallino, quello dei soliti vicini, gli stessi delle capre fameliche per intenderci, è venuto a farci visita e si è dedicato con molta attenzione ai fiori che Anna cura con un’attenzione ancora più grande. Tuttavia, dato che le mancanze degli uomini non ricadono sui cavalli, o almeno non dovrebbero, e poiché ci veniva a cercare con lo sguardo e con il muso, lo abbiamo accolto carezzandolo e correndo con lui nel prato, prima di indirizzarlo sulla via di casa. Mai visto un cavallino sgroppare così felice e libero. Avanti e indietro, su e giù, per lungo e per traverso, scuotendo la criniera e scalciando all’aria, per poi fermarsi a tratti e girarsi verso di noi con aria interrogativa: “…e mo’ dove siete rimasti?!”
Il ritiro di pratica meditativa di fine aprile si è svolto tra i vapori fumiganti delle nuvole che attraversavano il passo radenti il suolo e improvvisi squarci di sereno e vampate di sole. Proprio il sole ha benedetto il primo giorno di ritiro, mentre una pioggia gelida ha benedetto a tratti il secondo. Dice infatti il poeta: “se il freddo intenso non penetra nelle ossa, come possono essere fragranti i fiori di susino?” E come possono brillare come gioielli le braci nella stufa, dalla soglia di casa?
Sedersi in meditazione quando le luci delle città, laggiù nella pianura, ebbre vanno a dormire e rialzarsi nell’alba del mondo, quale notte bianca dello spirito ha da essere in ogni convento, monastero e luogo di pratica disseminato sulla terra!
Ogni attimo è
sia inizio che fine
non porta ad un altro attimo.
Ogni zazen è il primo e l’ultimo,
non porta a un altro zazen.
E per quanto possiamo sforzarci
non siamo noi a fare la pratica
ma la pratica a fare noi.
Davanti a ragazzi attenti e partecipi di un istituto superiore della nostra provincia, abbiamo tenuto un incontro sul dialogo policulturale e interreligioso, seguito da un testimonianza sull’obiezione di coscienza all’uso delle armi e sul servizio civile. Che gran cosa tornare a percorrere i corridoi scolastici affollati da giovani che potrebbero essere i figli e forse anche i nipoti dei nostri alunni di un tempo.
Sono ripresi i lavori per finire il ‘muretto a scendere’ che sostiene il vialetto d’entrata all’eremo. I problemi della progettazione sono stati superati, sia pure da modesto costruttore dilettante quale sono. Una mattina ho aperto gli occhi senza più il groviglio della sera e tutto era diventato chiaro, vedevo nella mente le soluzioni.
La poca acqua rimasta nei serbatoi di casa se n’era andata per l’uso e per un guasto alla conduttura – prontamente riparato – ma le piogge anelate dai boschi e dalla terra sono arrivate copiose sui tetti e sui pascoli, sulle cime e sui pendii, sulle fronde e tra i rami. Sono penetrate nel suolo, hanno rabboccato le falde, alimentato le sorgenti, riempito le cisterne, ammorbidito i tratturi, calmato gli sterrati polverosi. E alzando gli occhi vediamo neve abbondante in quota.
Ora i torrenti rumoreggiano nelle gole, le acque serpeggiano nei fondovalle con un gorgogliare uniforme e incessante fino ai fiumi, ai laghi e ancora ai fiumi e alla grande pianura che si stende ai nostri piedi e che ora beve finalmente. L’umidità al suolo ha ravvivato erba e fiori. Gocce di pioggia e rugiada mattutina ingannano gli occhi sulla polmonaria, mischiandosi con le macchie tonde e chiare proprie delle foglie, così che uno non sa più quali sono le gocce e quali le macchie, a meno che vada a scuotere le foglie, vistose ed eleganti. Un brulicare di forme e di essenze danno vita al prato che da raso è ora gonfio di steli come un intricato universo di vuoto e di pieni.
Molte piante spontanee hanno anticipato l’orto. Dopo la cicoria è ora l’asparago di montagna, fresco e amarognolo, le salvie buone da impanare, la comune piantaggine, il primo iperico, la piccola carota selvatica dal gusto intenso e inaspettato. Decine e decine di erbe che ci terranno compagnia fino allo sfalcio d’esordio in maggio, per poi ricrescere dopo ogni taglio lungo tutto il resto della primavera e per l’intera estate, quando i prodotti dell’orto ci consentiranno di contemplarle e lasciarle in pace.
Nell’alba pallida
scuro e chiaro un buddha
lucente luna
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31 marzo 2019
*
Marzo
La terra ha sete. Le grandi piogge di marzo che ogni anno ci riempivano i serbatoi di casa per un intero anno, e quelli dell’orto per le prime seminagioni, sono state avare di sé. Qualcosa è venuto, ma ne servono altre. Le sorgenti dei dintorni sono un esile rivolo e gli animali selvatici devono allungare i loro percorsi per trovare una pozza d’acqua, rimasugli di torrente e gocciolatoi. Più a valle sono in secca i fiumi e la grande pianura. Il lago della Valvestino lascia affiorare dal fondo le vecchie mura sepolte dall’invaso artificiale e anche le vaste acque del Garda, profonde assai, sono arretrate e lasciano scoperti tratti di riva.
Le prima erba selvatica della stagione che abbonda nei paraggi è la “cicoria” tarassaco. Mentre sbuffo con la carriola di terra su e giù dal bosco all’orto, Anna, con la pazienza meditativa trasmessa dalle nostre nonne patriarche, ne raccoglie i cespi, ancora piccoli in questo mese e a quest’altezza, vagabondando di terreno in terreno. Segue la mondatura, dove la pratica tocca il suo acme: foglia per foglia, radice dopo radice. Poi il lavaggio. Infine la cottura. Quando la cicoria arriva sulla tavola è diventata un piatto salutare e prelibato. Pure l’acqua di cottura che è di suo un toccasana depurativo e diuretico, non viene buttata. Quest’erba pressata per estrarre l’ultima acqua e poi sgranata nel piatto, condita con un po’ di olio extravergine dei declivi gardesani più a lago si lascia raccogliere dal piatto per mezzo di pezzetti di pane e portare alla bocca in totale presenza mentale. Con la stessa consapevole grazia si lascia masticare e deglutire, sentendone la consistenza morbida, la sapidità dolce, ma con una punta di amaro. Fra poche ore ne sentiremo, con la stessa consapevolezza, il rumore della deiezione cadere nel WC. E da lì, biologicamente riciclata, questa erba sarà di nuovo alla terra che l’ha prodotta.
La seconda “erba” è l’asparago selvatico, che ora spunta appena ai margini del bosco, e dalla soglia di casa osserviamo crescere. Se ne riparla ad aprile.
La pratica intensiva zazen-koan di fine mese è ritornata all’eremo, dopo l’emigrazione invernale a casa nostra, nella cittadina alle porte di Brescia. Insieme a qualche presenza in più con la quale condividere l’esperienza.
Nell’orto il pruno è in pieno fiore. E anche i ciliegi selvatici, rustici testimoni della semplicità dell’eremo, stanno per esplodere in un’infiorata che nemmeno Salomone…
Che cos’è un attimo?
per il clacson dietro me
schiuma di rabbia
Sulla piazzetta
una grande dolcezza
sera sul lago
Kireji: il taglio che unisce
Riceviamo da Stefano Riondato – e per suo tramite dalle autorevoli fonti di riferimento che ha consultato: Valeria Cecon e Luca Cenisi, Presidente Associazione italiana haiku – un pregevole contributo sul kireji, letteralmente il “carattere che taglia”, termine giapponese, difficile da rendere in altre lingue, che segnala e produce uno spazio di respiro fisico e mentale, ma nel contempo consente di correlare e e riportare a unità emotiva due immagini. Di Stefano Riondato abbiamo scritto esattamente un anno fa su questa pagina, nel primo numero di NTL del 2018, e dei suoi haiku non possiamo che confermare la pregevole fattura e quanto già espresso in quella sede.
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“Anche nella sua immediatezza l’haiku ha delle caratteristiche formali che permettono di esprimere in maniera diversa quell’emozione non duale che l’autore vuole rendere nella sua opera. È di solito detto che l’haiku nasce dal silenzio e ritorna nel silenzio, così come è anche detto che nell’haiku devono esserci al massimo due immagini, o due concetti. Questo porta ad una classificazione di haiku contoriawase(in giapponese 取合わせ, dove le due immagini sono separate da un taglio, kireji (切れ字), “carattere che taglia”, oppure haiku dove si ha una sola immagine ichibutsujitate(一物仕立て “fatto di una cosa”) dove viene espressa una sola immagine o concetto.
Un esempio di haiku con toriawase è molto evidente in un haiku di Bashō come:
desolazione –
nel mondo di un solo colore
il suono del vento
(Bashō)
che fa capire come il toriawase permetta di rendere una risonanza tra i due concetti separati.
Gli haiku con ichibutsujitate contengono una sola immagine, ma espressa in un modo da suscitare ammirazione e contemplazione, sono haiku difficili da scrivere e richiedono una certa maestria per non scadere nel melenso:
la foglia d’ acero, cadendo
si volta da una parte
e poi dall’altra
(Ryōkan)
Nel pieno spirito orientale, tuttavia, si può capire come in ogni haiku vi sia “nascosto” un concetto di spazio, all’interno del quale i concetti, appena accennati, prendono forma senza essere descritti: non si riesce a descrivere esattamente il suono del vento che Bashō aveva sentito, eppure leggendo le sue righe pare di sentirlo. Non è descritto esattamente il moto di caduta della foglia d’acero, eppure leggendo Ryōkan, pare di vederla. Questo è anche il motivo per il quale gli haiku sono tanto cari ai maestri Zen, in quanto nel Sutra del Cuore si impara che “la forma è vuoto, e il vuoto è forma”, quindi la forma che “prende forma” nell’haiku, esprime quel senso di vuoto, tipicamente orientale.
Quando il concetto letterale di spazio, descritto nell’haiku, si fonde col concetto di spazio espresso dal termine ma (間), si crea una fusione tra reale e letterale che trascende il razionale. Per questo il concetto di kireji è da vedere come un vero e proprio elemento dell’haiku. Senza il kireji non si riesce a creare quello spazio letterale e si resterebbe nell’insoddisfazione di non avere espresso in senso debito lo spazio reale.
Nella letteratura originaria giapponese degli haiku esistono 18 kireji, i cui tre principali sono:「や」– ya, 「かな」– kana e 「けり」– keri.
Eppure è tanto importante e tanto studiato il kireji negli haiku giapponesi, quanto è, di solito, ignorato nella letteratura non giapponese, dove si cerca di rappresentare il taglio con simboli (trattino, puntini). Il fatto stesso che il kireji sia trasformato da fonema pronunciabile a simbolo sottinteso, svuota questa particella della pienezza di emozione che un kireji può dare.
Per questo, considero il kireji come una parte fondamentale dell’haiku, dal quale di solito parto poiché le immagini distinte dell’haiku possono trovare un’unità solo in presenza di un kireji.
Nell’espressività non giapponese resta sempre la questione di come esprimere il kireji nell’haiku, essendo impossibile riportare i termini giapponesi ( “ya”, “kana”, “keri”). Eppure il gruppo giapponese di Haiku Column, parte della Haiku University, riconosce il kireji come l’elemento che possa identificare l’haiku in lingua non giapponese, proponendo l’haiku con toriawase, su due linee, come esempio di haiku.
La questione, quindi e tutt’altro che completata. Dal punto di vista di uno scrittore italiano posso dire che nella lingua italiana abbiamo a disposizione gli articoli, che in giapponese mancano e ci sono nei nostri haiku molti esempi di come diversi tenori di taglio possano essere resi da una semplice omissione o aggiunta di un solo articolo.
Riporto qui un mio haiku che permette di riassumere tutti i concetti che ho espresso:
una farfalla
movimento a zig zag
di ago e filo
Quando pubblicai in un gruppo questo haiku, si accese la discussione se andava messo l’articolo “il” o no. Lo riscrivo con l’articolo:
una farfalla
il movimento a zig zag
di ago e filo
Quella discussione mi è rimasta impressa, perché compresi come con un solo articolo di differenza si descrivevano due emozioni diverse. Una forma più marcata, senza articolo, una forma più delicata, con articolo. Ho riportato questo mio haiku, con molta umiltà, solo perché è stato quello che mi ha generato tutte le considerazioni sugli haiku e il kireji che ti ho qui riportato, e che mi ha fatto capire come il kireji sia parte importante dell’haiku”.
Stefano Riondato
Letteratura
https://cinquesettecinque.com/2016/01/22/il-kireji-di-hiroyuki-fukuda-e-valeria-simonova-cecon/
https://cinquesettecinque.com/2016/02/29/toriawase-e-ichibutsujitate/
https://cinquesettecinque.com/2016/04/26/la-questione-kireji-di-luca-cenisi/
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Febbraio 2019
Dietro la siepe rimane solo un’esile traccia della neve d’inverno, mentre quella di primavera ancora non s’annuncia. L’insolito caldo ha già forzato una tonalità di verde sulle balze e nel prato. Anche se – appena sotto la superficie allentata – la terra è ancora ghiacciata, sono ricominciati i lavori.
I serbatoi dell’acqua sono alla pulizia annuale, così da essere pronti a ricevere le prime piogge di marzo. La legna di pezzatura intermedia, vecchia e stagionata, ha riscaldato l’eremo e le sue meditazioni. Ha quindi lasciato il posto a quella nuova, tagliata e ben allineata. Le cataste selvagge, portate su dal prato, hanno lasciato solo minuzzoli di legno e mucchietti di segatura, buoni per avviare il fuoco. Al loro posto una geometria regolare di pezzi irregolari, scolpiti nelle forme dalla natura artista e troncati ognuno dalla mano metodica del bisogno umano, naturalmente caldi e vivi nella loro varia unicità.
Il sole di novembre che andava a scomparire ogni giorno e per tutto l’inverno sui fianchi del monte Pizzoccolo – un alito gelato scendeva sulla nostra terra dal primo pomeriggio in poi – è ora il sole di fine febbraio dall’alta parabola che scavalca ampiamente la vetta. Fantasma luminescente nei giorni lattiginosi, in un profluvio di tonalità calde in quelli sereni, rosa e viola, passando dal fulvo al rosso più acceso, va a nascondersi con dolcezza due ore dopo nel bosco d’abeti che risale dal valico. Ancora nulla rispetto al sole bruciante dell’estate che scavalcherà anche l’abetaia e che dopo aver dardeggiato impietosamente negli occhi, sul filo dell’orizzonte, alle otto di sera lascerà in pace la terra nel cielo azzurro color pavone, in un altro mare di colori da togliere il fiato.
Per tutti c’è uno spazio, per tutti c’è una medicina, c’è un boccone e c’è acqua per la sete d’esistere. Se solo la mente dell’uomo smette di fuggire e di afferrarsi a illusioni. Se smette di stringere averi che sono morte e fame per chi soccombe. Ma lo sono prima ancora per chi vince, anche se di un’altra fame e di un’altra morte si tratta.
La campana del compost è come la dolina in mezzo al nostro prato, o la coppa dell’amore: per quanto ci si versi non si riempie mai e non è mai abbastanza. Dallo sportello in basso toglieremo il composto maturo e lo spargeremo nell’orto. Le zucche spontanee che ogni anno spuntano più rigogliose di quelle che seminiamo ne saranno felici.
Quest’anno prevediamo un nuovo terrazzamento lungo i pendii dell’orto. La recinzione che tiene lontani dalle nostre seminagioni cinghiali e altri ungulati, nonché le capre fameliche del vicino più prossimo, sull’altro versante del passo, ha in sé terra bastante per il nostro bisogno, una volta dissodata tutta e messa a coltura. Siamo circa a metà dell’opera. Il circuito dell’acqua è a posto: scende dai tetti, entra nel vascone da seicento litri dietro la siepe e da lì, per pendenza naturale, un tubo di un pollice e mezzo corre sottoterra e la porta nell’orto a decine di metri di distanza. Entra in un altro vascone da ottocento litri e ci si può servire. L’acqua in eccedenza viene immessa, con pompa a immersione che prende corrente dall’impianto fotovoltaico, in tre cisterne, ben mimetizzate, da mille litri ciascuna, poste nella parte alta della porzione d’orto da servire.
Ci servono carriole di terriccio di bosco e pali di castagno da mettere ai bordi per contenere la terra. Tutte materie prime del nostro terreno e scarti dei boscaioli che hanno lasciato la montagna in condizioni deplorevoli, tra lattine e bottiglie vuote, contenitori e sacchi di plastica, vecchi cavi d’acciaio arrugginito e ammassi legnosi che non avevano, con tutta evidenza, più alcuna convenienza nel venire a prendere.
Ci serve soprattutto una schiena nuova che non potremo avere e una forza che stagione dopo stagione sta scemando. Così misuriamo le ore e ci limitiamo all’essenziale. Ci rimane quanto basta per affrontare i problemi quotidiani e godere dei nostri giorni.
Se non capisci perché verso i settant’anni ancora
con Anna lascio gli agi e i tepori
alle rive del Garda
per arrancare su stradine coronate di rovi
che risalgono la montagna
e al limitare delle forze, regolare siepi
in bilico su scarpate
sfalciare e risfalciare terreni scoscesi e perduti,
spaccare legna, allevare boschi, riversare
secchi di ghiaia nei solchi impercorribili dei tratturi
spargere terra matura nell’orto, condurre
canali d’acqua a destinazione
portando la nostra vita al silenzio
e al passo dei Padri
nel grembo di Madri antiche
ogni giorno la sua fatica
accovacciata, ansante, in cerca di respiro
ogni sera i lenti gesti e difficili
per uscire dai panni e dagli scarponi
se non capisci questo, non capisci la vacuità
di ogni sudore, non conosci della Rivoluzione
il fiato umano
e perché con Anna siedo in zazen
e poi forgio parole.
*
fino a Barata
in marcia nella neve
poi il Baldo in fiamme
I nipotini crescono bene ed è una festa ogni volta giocare con loro. In effetti, da S. Lucia, il 13 dicembre, la santa che da noi porta i regali ai bambini, ad oggi, fine gennaio, è stato un bagno di visite, ricevute e date, ad amici, anziani, parenti e ammalati.
Infanzia e vecchiaia sono
età dello spirito e dell’universo.
Quelle nelle quali l’io non è
ancora così forte o non più.
Per l’infanzia è gioco e scoperta
per la vecchiaia è comunanza
di tempo ed eternità.
Conservare gli occhi dell’infanzia
e anticipare i doni della vecchiaia
è la migliore età adulta.
Dite voi, la migliore giovinezza.
E per non farci mancare nulla abbiamo partecipato a incontri e iniziative sul razzismo ed altri temi sociali, fatto poesia e perfino raccolto olive in allegra compagnia sulle dolci rive del Garda. Il resto lo lasciamo nella penna, ché tanto chi non vuol intendere, non intenderebbe nemmeno davanti alla più evidente delle evidenze.
Nella baraonda abbiamo conservato il cuore del silenzio, le pratiche del lunedī sera al Centro, i ritiri di fine mese, il Capodanno all’eremo.
Alla finestra nord-ovest montagne
innevate, per la finestra nord- est
alberi spogli. Nella finestra sud-ovest
un Buddha in zazen. Tra le griglie a sud
una scala di luce con pioli d’ombra.
Dal lucernario le ultime stelle.
Ora la neve di gennaio copre anche la strada che vi conduce e nessun veicolo l’ha ancora violata. Con una breve marcia sul manto cristallino, portando taniche di acqua e un po’ di viveri, sotto un sole tutto sommato già caldo e carezzevole, ci siamo giunti oggi, giusto in tempo per accendere la stufa, fare un giro nel bosco, controllare che tutto fosse a posto, pranzare e sedere in meditazione.
Abbiamo parlato a lungo, il mese scorso, dell’imponente ed elegante verticalità degli alberi più vistosi, ma è ora il turno di quelli più umili, stortignoli, affaticati nel portamento, stentati nell’aspetto. I primi ad essere tagliati in quanto soprannumerari, gli ultimi a vedere la luce dopo tante contorsioni per raggiungerla la luce, e svettare. È il turno dei perdenti nella competizione, degli obliqui, dei piegati, degli inclinati, dei reclinati, degli scomposti, quelli destinati a una vita grama e a seccare. Non voglio dire del loro ruolo nel bosco, che è tanto poco appariscente quanto prezioso ed essenziale. Voglio dire solo della loro bellezza tormentata, del loro urlo silenzioso, ma ben visibile nelle fibre e nelle forme, verso un’aspirazione di vita e un’accettazione della morte, assolutamente dignitose nella sconfitta. Voglio dire della loro presenza, di volta in volta furiosa e dolente, discreta, rassegnata e ribelle che fa il bosco quanto il bosco fa le loro vite.
Isole i monti
sopra un mare di nebbia
in alto la luna
sulla ghiaia algida
scricchiolio di passi
silenzio intorno
scie di navi
sul lago scintillante
onde e ritorni
*
31 dicembre 2018
DICEMBRE
La neve ha coperto il prato e ogni lavoro è sospeso. Aleggia il silenzio invernale nell’immobilità delle cose.
Il trattore ha finito di fare la spola e ora è al coperto, vicino al grande ginepro che fa da portale tra il tratturo che sale dal prato e quello piano che porta da una parte al belvedere con vista circolare sui monti e sul Garda in lontananza, e dall’altra a casa. La carriola meccanica è rimasta nella rimessa, perché gli anelli di tronco più grandi sono stati ridotti in quarti con mazza e cunei, e poi caricati direttamente sul cassone del trattore. Spaccati e sistemati i ceppi. Accatastata la legna intermedia, pronta per il taglio nel vicino congegno costruito sul modello di quello visto a Lubenice, in Croazia, un’estate che eravamo in visita a quel borgo montano e antico, che sovrasta il mare.
La neve ha coperto il prato e le valli. Ha avvolto le rocce, tappezzato i boschi. Ha crestato i rami e le siepi, imbiancato il tetto e orlato la legnaia. Ciò che prima era separato, con i suoi contorni netti, ora è distinguibile solo come un piccolo rilievo del manto bianco. I piani orizzontali e obliqui hanno perso i loro secchi confini e passano dall’uno all’altro dolcemente digradando.
Famiglie di carbonai, di contadini e montanari si affollano intorno a noi quando meditiamo davanti al fuoco. Generazioni di avi, che qui sono passate, e di patriarchi da ogni punto del mondo si raccolgono attorno alla fiamma, nel nostro zazen. E noi non manchiamo d’inchinarci loro.
I mezzi degli ultimi cacciatori a lasciare la montagna nel suo silenzio invernale, hanno tracciato due solchi neri e paralleli nella neve, che marcano la sinuosità della via, in basso oltre la siepe.
Pochi alberi sui nostri monti possono uguagliare il monumentale portamento dei faggi. Sul sentiero che taglia la montagna, poco sopra l’eremo ce n’è una pianta sul ripido pendio boscoso che sale maestosa e verticale, senza perdersi in rami laterali fino a due terzi dell’altezza, per poi aprirsi, con diramazioni possenti, in una chioma che intercetta il cielo e il calore del sole. Altra vegetazione, nel raggio di una decina di metri, non è potuta crescere e vincere la competizione verso la luce. La corteccia compatta, senza rughe né scaglie, priva di nodi e bitorzoli, scevra da spuntoni secchi di vecchie ramificazioni, appena sfregiata da alcune iniziali incise, uniforme nel suo grigio e granulosa al tatto ci regala sempre la scoperta di una forza ammirevole del legno, la dimensione fisica di una vita oltre noi che pure è la nostra.
Altri alberi qua attorno s’innalzano lineari verso la volta: la betulla slanciata e altissima di fianco a casa, il giovane castagno in fondo al prato, quello imponente sulla via, e sorprendentemente il ginepro del portale, che ha lasciato l’andamento arbustivo tipico della famiglia per elevarsi come un fuso, nel folto dei rami che scendono fino a terra. Ma di tutti i fratelli minori del faggio, del castagno e delle piante che seguono pure linee verticali, espandendosi poi in chiome creativamente regolari nella loro irregolarità, più ancora sorprendenti del sorprendente ginepro devo dire dei due agrifogli, uno dietro il casolare e l’altro nel prato di fianco al giovane castagno.
I cespugli di un tempo sono ora alberelli dai quali si dipartono in modo ordinato e in tutte le direzioni rami decrescenti a cono. Per la loro forma e il verde intenso e scuro, potrebbero vagamente sembrare in lontananza dei piccoli abeti, ma quest’anno il loro carico di tonde bacche rosse – e che rosso! – li svela subito come agrifogli, perciò stesso ancora più natalizi. Sicché i rari viandanti invernali se li godono, sostando un poco in quieta meraviglia.
Respira i boschi
un unico silenzio
per valli e valli
fratel leprotto
attraversa il campo
bianco di neve
Cucina accesa
al rifugio nebbioso
soglia di passi
*
1 dicembre 2018
*
30 novembre 2018
NOVEMBRE
I giganti caduti, la loro mole impressionante e i rami incrociati in un groviglio sconsolato sono stati potati, tagliati, ridotti in cataste e cumuli che ora giacciono sul prato. Le ramaglie fini e le foglie, futuro e pregiato terriccio, sono andate a livellare conche e affossamenti del terreno. La legna intermedia, in pezzature irregolari da uno a due metri, è impilata a fascine su di un’erba verde intenso e rugiadoso, che non riesce più ad asciugare al sole, né tanto meno nella caligine novembrina.
La legna grossa, i ceppi, le grandi sezioni circolari dei tronchi segati hanno già fornito parecchi carichi di trattore e gli ammassi che restano ne promettono altri. Gli anelli più grandi dovranno essere caricati con la pala meccanica della carriola a motore e portati uno a uno allo spaccalegna sul crinale del valico, nella legnaia vicino a casa. A stento i pannelli fotovoltaici e gli accumulatori, non dimensionati per questo extra-compito, riescono a reggere il lavoro del motore elettrico che frantuma i ciocchi, ma riescono. E reggono.
Solo una porzione di tronco, rovesciata sul fianco scosceso del bosco, è lì a ricordare ancora i tagli da fare con la motosega. Stringe il cuore vedere la lama scomparire nel diametro per lei troppo grande e sentirla ansare insieme al mio fiato troppo corto.
Con un calcolo della pendenza e un taglio mirato alla base di uno dei tronchi, l’intero ammasso di radici e di terra che era stato eradicato e sovrastava cupamente il passaggio è ripiombato di colpo nella voragine che si era creata, ripristinando l’estetica e la funzionalità del sentiero pubblico dietro casa. A parte il terreno un po’ smosso, è con stupore che vediamo tutto tornato naturale.
Un altro ammasso di radici e terra sta rivoltato e sospeso sul pendio, sorretto solo dal moncone di tronco piantato nella terra. Ma il tempo, il gelo, l’acqua faranno marcire il moncone e spoglieranno della terra le radici. Tutto si depositerà al suolo come una gibbosità del terreno che a sua volta verrà lentamente appianata. Le radici scheletrite si consumeranno, rifiorirà il sottobosco in questo vuoto naturale e innaturale. Altri occhi vedranno, ma solo se l’essere umano nel mondo saprà ricordarsi dei suoi piccoli angoli.
Amo le legnaie, il loro odore misto di essenze arboree come una presenza amica. Il segno di una fatica antica dell’uomo, il senso caldo e ancestrale di una provvista sotto la neve, per un rifugio dove il cuore umano passa l’inverno. E Anna, tra un volontariato e l’altro, ha sistemato la nostra con grande perizia, con una dedizione squisitamente femminile e meditativa.
il bosco ulula
scuote anche la legnaia
il vento del nord
stanco di intrichi
appare all’improvviso
il nostro prato
viaggio e viaggio
foglie cadute intorno
ricordando te
*
31 ottobre 2018
OTTOBRE
Una pioppa tremula s’è abbattuta su di un carpino nero e se l’è trascinato nella caduta. Insieme hanno schiantato la chioma di un carpino bianco e sono atterrati nel prato rasato di fresco, in un groviglio di rami, tronchi e fronde spezzate, già maculate d’autunno.
Nella cornice ordinata di un verde erboso e smeraldino, frutto di sudore, lame e lunghi rastrelli, squisitamente orlato a terra di foglie dai colori di Van Gogh, spiccano ora i corpi abbattuti dei due giganti in un intrico scomposto.
Nel contrasto tra spazio ordinato dall’uomo e incursione del disordine tempestoso – che costerà ore di lavoro se non vogliamo che i materiali scivolino a valle ad intasare i corsi dei fiumi, e frutterà legna per due inverni – s’afferma la vita. Quella quotidiana ed epica dell’essere umano nel dare forma agli elementi, fino ad arrivare a sconvolgerli, e quella incontenibile degli elementi nel riprendersi il loro ordine, rimescolando i mandala, perfetti e imperfetti, degli uomini.
sul mio ginocchio
zampette e frullo d’ali
un passerotto
Le foglie gialle
e rosse del ciliegio
sulla lattuga
bianchi vapori
veleggiano le gole
passi nell’orto
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19 settembre 2018
SETTEMBRE
La cicala ora
tace, più assordante
è il silenzio
gioie montane
il tappo del lambrusco
oltre la siepe
si lancia un grido
nei boschi e da lontano
l’altro cuore sa
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30 Agosto 2018
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1 giugno 2018
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1 Marzo 2018
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11 Gennaio 2018
acque purpuree
strida di oche selvatiche
affievoliscono
Sotto la foglia
nella sua umida ombra
un filo d’erba
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22 Agosto 2017
“”
UNA PAGINA PER L’ESTATE
“”
L’eremo era silenzioso. Dove dopo il tramonto e prima dell’alba bruca il capriolo, caccia la volpe e la lepre fugge, sì qui dove il branco di cinghiali grufola nell’oscurità, spingendosi a ridosso dei muri, di giorno tutto è come sospeso nella calura. È un vecchio casolare, circondato dai boschi e fasciato da una verde radura consolidata dal sudore degli uomini. Una strada in basso delimita radura e romitorio. Un sentiero, dietro i muri, s’inerpica nel bosco verso la sommità della collina per una vista che vola sul Garda, attraversa tutta la pianura e arriva di là, ai grandi Appennini dell’Emilia.
A ogni passo
un fruscìo di lucertole
rari viandanti
Era come nelle calde ore della mietitura, nell’assolata campagna del mio dolce paese, tagliata dalla ferrovia e percorsa da treni come saette che lasciano dopo, lo stesso silenzio di prima. Un colore giallo maturo di spighe trebbiate domina la terra. Si sente odore di paglia, di rive sfalciate. Si vedono papaveri caduti, e papaveri rimasti in crocchio o solitari, ai margini dei fossi, sui riporti di terra.
Sospeso oblìo
rotaie, quieti campi
Poi un rombo, un lampo!
Ma qui era il grigio biondo del fieno fresco, che in strisce regolari e a spirale, contrastava con il verde smeraldino dell’erba non ancora bruciata dalla vampa di luglio. I papaveri si erano fermati lungo la strada che porta all’eremo e l’odore che penetrava le narici era ancora quello dell’erba appena tagliata. Un confortevole senso di avamposto umano avvolto da forze incontrollate, respinte dove non arrivava lo sfalcio,
lama taglia erba
erba consuma lama, ehi
piccolo grillo, ehi!
mi ricordava cosa dovevano provare gli uomini del medioevo avvolti dalle foreste che li attendevano appena fuori dal villaggio, piccolo nucleo d’ordine circondato dal caos primigenio, con un bestiario solo immaginato che popolava le affabulazioni nelle lunghe sere d’inverno e nelle corte lune d’estate. Qui le notti senza luna sono profonde, ma c’è un firmamento nella volta celeste che le città possono solo sognare e lascia inermi e felici davanti all’infinito universo di luci siderali. Dal soppalco nella stanza della meditazione si accede facilmente, a mezzo busto, al lucernario sovrastato dal grande ciliegio morente. Un picchio rosso maggiore ha fatto il nido dove il tronco diventa il grande ramo centrale. Un’apertura certosina, grande, perfettamente circolare, da dove si sporge all’alba e al tramonto, a gola spiegata per chiamare il cibo, il rampollo unico della nidiata, col ciuffo rosso, il becco grosso, la testa che occhieggia e si ritrae. Le file regolari delle tegole, i colmi e i canali, scendono verso la valle – il tetto poderoso come una fortezza che declina – e portano lo sguardo, aereo, sui monti della Valvestino. L’animo non può più nulla, si respira.
Si esce sui tetti
come i gatti di notte
silenzi e stelle
In viaggio verso l’eremo, la strada passa tra gli agi e i tepori del Garda. Un’architettura di giardini e dimore che richiama l’Europa intera, forse il mondo, sulle sue rive. Geometrie verdi, spazi accurati, un lavoro meticoloso.
Ignaro sbuca
dalla siepe rasata
un fiore di zucca
Poi, una volta arrivati, sono i gesti essenziali che ti prendono e ti conducono le ore: aprire l’acqua, controllare la sete dell’orto, fare il giro delle sette porte con le chiavi in mano, sedere in meditazione, fare la lista dei lavori, preparare i pasti. Sedere a conversare con gli occasionali visitatori, un bicchiere di vino, un tè, una caraffa d’acqua. Camminare nel bosco, leggere un libro sotto il pino in estate. A seconda delle stagioni il tal gesto, il tal frutto, quel lavoro, quell’aria, i colori, i venti freddi e impetuosi del Nord o quelli caldi dall’anima liquida in basso. E le increspature talvolta, gli idilli con l’amata. Ma questa è un’altra storia. Una storia che continua e si ripete a ogni stagione, diversa e uguale. È fatta di parole e spazi silenziosi una pagina di rivista letteraria. È fatta di parole e silenzi la pagina preziosa della vita, ché rimanda a un sapore ineffabile e inesausto, universo e sogno, universo e uomo, dall’alba dei tempi. Qui disteso sotto il pino, posto a vedetta del passo, appoggio il libro aperto sul petto e guardo
se non capisci:
tre pomodori rossi
l’azzurro lago.