Francesco Sassetto
Stranieri
ValentinaPoesia
pag.120, 2017
12€
Nella diversità dei nostri percorsi esistenziali, molti sono i punti di contatto fra Francesco Sassetto e me. Come lui ho frequentato Ca’ Foscari e conosco Venezia per averla abitata e vissuta quattro anni, girandola in lungo e in largo e respirandone il suo percettibile ritrarsi, la china inarrestabile del suo svuotamento. Come lui ho insegnato per lunghi anni nella scuola italiana, vivendone le contraddizioni, che dovrebbero essere centrali in una comunità sociale sana, protesa ad allargare l’area della sua coscienza, e che invece si rivelano assolutamente marginali, chiuse come tante monadi senza finestre, in drammi individuali di incalcolabile inaridimento sociale. Ho poi scelto il CTP, centro territoriale permanente per l’istruzione degli adulti, ovvero ho insegnato la lingua italiana agli stranieri, tutti immigrati: asiatici della Cina, Pakistan, Bangladesh, India, est europei e africani delle più varie etnie e nazionalità. Una varia umanità che vista da vicino rivela la nostra stessa cifra esistenziale, la stessa assoluta spinta a vivere che non conosce confini, e nel bene e nel male rappresenta uno specchio – a volte fin tropo benevolo – in cui ci possiamo specchiare, senza più miti e malintesi. Scrivo poesia, infine, in italiano e dialetto. Un dialetto della marca bresciana, la più orientale della Lombardia, al confine con il Veneto, che con il Veneto ha e ha avuto intersezioni sociali, politiche, economiche e linguistiche ampie e profonde, tanto che posso leggere direttamente il veneziano di Sassetto in originale, come una semplice variante del mio, anche se storicamente sarebbe il mio a poter essere una variante del suo, tante e tali sono state le implicazioni della Serenissima sul territorio bresciano, a cominciare dalla Magnifica Patria sulle rive del comune lago di Garda.
In questa apparente divagazione, ho già segnato le coordinate umane e culturali dell’opera di Francesco Sassetto, divisa in tre sezioni: Venezia e la sua diaspora, il suo declino umano, la prima. Il dissidio umano e sociale, la seconda, di chi nel sociale dovrebbe agire come lievito madre e invece si scopre a sopravvivere nello smarrimento generale, che si riveste di ferocia nei rapporti di persone ridotte a individui. Tutti in trincea, tutti vittime, tutti carnefici. Infine la terza, immersa nel rapporto con gli “stranieri”, titolo dell’opera intera, paradigmatico di quanto straniera sia ormai la vecchia e nuova Venezia, ovvero quelli che erano i nostri luoghi dell’anima, straniera la scuola, il posto di lavoro, i rapporti sociali, ostili, diffidenti, immiseriti.
E stranieri, i meno stranieri forse, tutti quei volti che faticosamente imparano ad articolare i suoni della nostra terra, ma si tengono stretti, come tutti i migranti, come gli italiani nel mondo, come i residenti che si sentono invasi, i segni identitari che fanno loro sapere ancora chi sono.
È ben questo il dramma: spasmodici segni identitari attorno ai quali gli esseri umani s’arroccano e si dilaniano, pena l’horror vacui della perdita degli elementi con cui definiamo noi stessi e la nostra vita. Arroccamento che in definitiva è arroccamento attorno all’idolo di un proprio “io” o di un proprio “noi”, separato e in competizione con il resto del mondo. E tutto questo in luogo di una scoperta vera del nostro sé, che dimora nel profondo di ognuno di noi e relativizza i segni identitari a semplici, godibili, rispettate appartenenze, sovrastate per potenza e profondità dall’appartenenza a un solo vero segno identitario, quello dell’unica vita che ci costituisce e circola in tutti e in tutto.
Stando come stanno le cose lo scoppio di una guerra tra poveri, cavalcata per di più da chi ha interesse a farlo, è facilmente ipotizzabile. Anzi è già in corso, e Sassetto non può che giungere, con il pessimismo della ragione a questa conclusione, benché con l’ottimismo della volontà il suo libro stesso, che denuncia le contraddizioni del nostro vivere e solleva interrogativi ancora senza risposta, si batta per scongiurarla. Tutti non ci possono stare, tutti non possono essere asserviti a quella logica produttiva che li ha contribuiti a creare, in cambio del proprio posto al banchetto, anche se solo di briciole si tratta, e magari a danno di altri. Però in mare non si possono lasciare, e neppure nei lager libici. E lasciarli marcire nel deserto o nei luoghi di guerre che sparano con le nostre armi, luoghi di miserie che parlano anche con le leggi dei nostri mercati, coloniali e presenti, è forse possibile?
Domande che chiamano in causa le basi stesse del nostro vivere, la falsa coscienza di una società fondata sull’abbondanza, che è fame, povertà ed esclusione per molti, dentro a tutte le nazioni, in infernali gironi, via via più periferici e degradati. E ognuno acquattato, per la paura di perdere anche quel poco.
La poesia di Francesco Sassetto, in tutto questo non è un semplice veicolo di contenuti civili, come sempre è tacciata la poesia civile per ridurne il valore e il ruolo, bensì il suono stesso di una coscienza, commossa e ancor più partecipe, che elabora i suoni della parola. E qui il dialetto, che ha parte preponderante nell’economia del libro, che si estende fin dentro le composizioni in lingua, è forma e sostanza, immediatezza e schiettezza, presa diretta della realtà. È rifugio e atto d’accusa, punto di frattura che mentre rivela le sue basi identitarie, il bisogno e il senso di appartenere, ne denuncia tutti i limiti e tutte le esclusioni, rivolte, si badi bene, prima ancora che allo “straniero” fisico, al mondo interno che lo parla, da persona a persona, anzi da individuo a individuo come abbiamo scritto poc’anzi. L’esclusione che si compatta contro gli “stranieri” è già ben presente nelle nostre e loro miserie, nelle nostre e loro storie e nelle nostre e loro fratture sociali. In più di una pagina aleggia lo spirito di Spoon River e del suo microcosmo umano, che è nel contempo archetipo macrocosmo dell’animo. Lo ricorda l’andamento narrativo, anche se in terza persona, quasi prosastico del verso, ma diretto, icastico, rapido nell’enucleare con pochi tratti un personaggio, una situazione, un clima, una speranza, un fallimento, “un simbolo strappato dalla foresta dei simboli e inchiodato per sempre nell’anima”.
Claudio Bedussi
caro Claudio, dirti grazie per questa tua appassionata, attentissima recensione al mio libro, è davvero poca cosa. Hai centrato pienamente e illuminato il “senso” di queste mie poesie, del percorso umano che le ha generate, percorso così vicino al tuo, quasi contiguo, che ti e ci consente di provare sentimenti ed emozioni molto simili che tu hai espresso in modo così lucido ed emotivamente partecipe che ne sono commosso. Commosso e onorato. Grazie davvero, Claudio. Con tutto il cuore
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