FEBBRAIO

    Dietro la siepe rimane solo un’esile traccia della neve d’inverno, mentre quella di primavera ancora non s’annuncia. L’insolito caldo ha già forzato una tonalità di verde sulle balze e nel prato. Anche se – appena sotto la superficie allentata – la terra è ancora ghiacciata, sono ricominciati i lavori.

        I serbatoi dell’acqua sono alla pulizia annuale, così da essere pronti a ricevere le prime piogge di marzo. La legna di pezzatura intermedia, vecchia e stagionata, ha riscaldato l’eremo e le sue meditazioni. Ha quindi lasciato il posto a quella nuova, tagliata e ben allineata. Le cataste selvagge, portate su dal prato, hanno lasciato solo minuzzoli di legno e mucchietti di segatura, buoni per avviare il fuoco. Al loro posto una geometria regolare di pezzi irregolari, scolpiti nelle forme dalla natura artista e troncati ognuno dalla mano metodica del bisogno umano, naturalmente caldi e vivi nella loro varia unicità.

       Il sole di novembre che andava a scomparire ogni giorno e per tutto l’inverno sui fianchi del monte Pizzoccolo – un alito gelato scendeva sulla nostra terra dal primo pomeriggio in poi –  è ora il sole di fine febbraio dall’alta parabola che scavalca ampiamente la vetta. Fantasma luminescente nei giorni lattiginosi, in un profluvio di tonalità calde in quelli sereni, rosa e viola, passando dal fulvo al rosso più acceso, va a nascondersi con dolcezza due ore dopo nel bosco d’abeti che risale dal valico. Ancora nulla rispetto al sole bruciante dell’estate che scavalcherà anche l’abetaia e che dopo aver dardeggiato impietosamente negli occhi, sul filo dell’orizzonte, alle  otto di sera lascerà in pace la terra nel cielo azzurro color pavone, in un altro mare di colori da togliere il fiato.

 

       Per tutti c’è uno spazio, per tutti c’è una medicina,  c’è un boccone e c’è acqua per la sete d’esistere. Se solo la mente dell’uomo smette di fuggire e di afferrarsi a illusioni. Se smette di stringere averi che sono morte e fame per chi soccombe. Ma lo sono prima ancora per chi vince, anche se di un’altra fame e di un’altra morte si tratta.

     La campana del compost è come la dolina in mezzo al nostro prato, o la coppa dell’amore: per quanto ci si versi non si riempie mai e non è mai abbastanza. Dallo sportello in basso toglieremo il composto maturo e lo spargeremo nell’orto. Le zucche spontanee che ogni anno spuntano più rigogliose di quelle che seminiamo ne saranno felici.

    Quest’anno prevediamo un nuovo terrazzamento lungo i pendii dell’orto. La recinzione che tiene lontani dalle nostre seminagioni cinghiali e altri ungulati, nonché le capre fameliche del vicino più prossimo, sull’altro versante del passo, ha in sé terra bastante per il nostro bisogno, una volta dissodata tutta e messa a coltura. Siamo circa a metà dell’opera. Il circuito dell’acqua è a posto: scende dai tetti, entra nel vascone da seicento litri dietro la siepe e da lì, per pendenza naturale, un tubo di un pollice e mezzo corre sottoterra e la porta nell’orto a decine di metri di distanza. Entra in un altro vascone da ottocento litri e ci si può servire. L’acqua in eccedenza viene immessa, con pompa a immersione che prende corrente dall’impianto fotovoltaico, in tre cisterne, ben mimetizzate, da mille litri ciascuna, poste nella parte alta della porzione d’orto da servire.

       Ci servono carriole di terriccio di bosco  e pali di castagno da mettere ai bordi per contenere la terra. Tutte materie prime del nostro terreno e scarti dei boscaioli che hanno lasciato la montagna in condizioni deplorevoli, tra lattine e bottiglie vuote, contenitori e sacchi di plastica, vecchi cavi d’acciaio arrugginito e ammassi legnosi che non avevano, con tutta evidenza, più alcuna convenienza nel venire a prendere.

        Ci serve soprattutto una schiena nuova che non potremo avere e una forza che stagione dopo stagione sta scemando. Così misuriamo le ore e ci limitiamo all’essenziale. Ci rimane quanto basta per affrontare i problemi quotidiani e godere dei nostri giorni.

Se non capisci perché verso i settant’anni ancora
con Anna lascio gli agi e i tepori
alle rive del Garda

per arrancare su stradine coronate di rovi
che risalgono la montagna

e al limitare delle forze, regolare siepi
in bilico su scarpate

sfalciare e risfalciare terreni scoscesi e perduti,
spaccare legna, allevare boschi, riversare

secchi di ghiaia nei solchi impercorribili dei tratturi
spargere terra matura nell’orto, condurre
canali d’acqua a destinazione

portando la nostra vita al silenzio
e al passo dei Padri

nel grembo di Madri antiche

ogni giorno la sua fatica
accovacciata, ansante, in cerca di respiro

ogni sera i lenti gesti e difficili
per uscire dai panni e dagli scarponi

se non capisci questo, non realizzi la vacuità
di ogni sudore, non conosci della Rivoluzione
il fiato umano

e perché con Anna siedo in zazen
e poi forgio parole.

*

fino a Barata
in marcia nella neve
poi il Baldo in fiamme

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