La grande montagna

In memoria di Don Angelo Chiappa

        Conobbi per la prima volta la grande montagna nel luglio del ’74, nella trentina Val Daone a Malga Bissina. Alloggiavamo nelle baracche di Padre Marcolini che i Padri della Pace di Brescia ci avevano concesso per portarvi in vacanza i ragazzi della Casa del Fanciullo di Bogliaco, gestita da Don Angelo.

Tanto tempo fa
in riva al lago,
una repubblica dei ragazzi
aveva innalzato
la sua bandiera a Villa Teodora.

Si ritrovavano lì ogni giorno
tutti i figli
del nostro amore distrutto,
nella temeraria impresa
di riscaldarsi, almeno un poco,
il cuore.

C’erano stati, è vero, gli anni bui
quando la villa teneva
tutte le serrature a posto
e i ragazzi nascondevano
i bisogni in tasca.

Ma ormai da tempo
le serrature si erano rotte
e le voci si alzavano
nella luce del giorno.

        Sullo sfondo l’imponenza del Caré Alto, parte magnifica del ghiacciaio dell’Adamello, ai lati corone di monti che corrono frastagliate, dalle linee taglienti e aguzze, blocchi di granito adamellino a sfascioni, e ovunque acqua: acqua in rivoli, acqua in cascate e cascatelle, acqua in pozze e laghetti. Acqua di neve sciolta, limpida, buona da bere con le mani a coppa. A quel tempo, anche in piena estate, l’erba era ancora di un verde nuovo e raso, segno evidente di neve sciolta di recente, e lo sguardo spaziava tra le linee nette e massicce delle rocce a quelle morbide e ordinate di un verde tappeto a prato inglese che le avvolgeva.

        Ancora mi ricordo, e ancora c’è, lei sì, all’inizio del lago di Nudole, poco prima del ristorante da Pierino, accanto a quello che adesso è un parcheggio di auto, una roccia ruvida al tatto come tutta la pietra adamellina, ma arrotondata nella forma, emergente dall’erba rasa come un dorso di balena emerge dall’acqua. Usandola come schienale, ci si stendeva supini, alcuni di noi assistenti e qualche ragazzo, all’arrivo del buio e prima di tornare su alle baracche chiamandoci e cantando allegri nell’oscurità.

“Perché spesso ridendo con ragazzi e ragazze
io giocai nella strada e sulle colline
quando il sole era basso e l’aria fresca,
fermandomi a bastonare il noce
ritto, senza una foglia, contro il tramonto in fiamme.
Ora il sentore del fumo d’autunno
e le ghiande che cadono,
e gli echi per le valli,
mi portano sogni di vita. Li sento aleggiare.
Mi chiedono:
Dove sono quei tuoi compagni ridenti?
Quanti sono con me, quanti
nei vecchi frutteti sulla strada di Siever,
e nei boschi che guardano
l’acqua tranquilla?“

        Parlavamo dei nostri sogni, sognavamo il nostro futuro, ma poi rimanevamo a lungo in silenzio. Un silenzio pieno di stupore sotto una immensa volta stellata, dove le stelle erano sparse a piene mani, mai vista prima tra le luci della pianura e della città.  Sono tornato ancora a quella roccia negli anni a venire, ho ritrovato il cielo e le stelle, stretto la mano al mio tesoro, ma non ho più ritrovato quell’età, quei sogni e quei ragazzi.

      Mentre l’afa avvolgeva tutte le terre basse, noi ci si svegliava al mattino, freddo e frizzante, sotto coltri di calde coperte e ci si lavava nel ruscello, ancora più gelido, vicino alle baracche.

Di nuovo il sole
e l’ombra dei boschi
sul pianoro del mattino.

Alla finestra ragazzi in risveglio
stupiti che sia
nella luce dell’alba.

       Poi si partiva per camminare e camminare, Don Angelo sempre in testa e io in coda a chiudere la fila: un giorno al rifugio della Val di Fumo, tra le sorgenti del Chiese e i mughi. Un altro al Lago di Campo, una perla alpina ai piedi del Re di Castello, dal colore blu profondo digradante sulle rive in uno terso smeraldino e contornata dal colore acceso dei rododendri in fiore. Poi al Passo di Campo dove la vista riprende la terra bresciana.

Ora le nubi corrono inquiete
per le valli.

Io seduto sono inquieto
e i ragazzi hanno taciuto.

Nessun sentimento manca
e nessun colore
nei teneri azzurri
di questi lunghissimi cieli.

Il libero caos vitale
qua si svolge incessante
sul poggio del mondo

e dentro la nostra stanchezza
e il nostro stupore
e il sorriso
e il tempo di tornare.

        Molte volte arrivavamo più in basso, al lago di Nudole, uno stagno fangoso nel fondo, ma limpido di acqua appena mossa dalla brezza, dove giochi ed epiche sfide, tra assistenti e ragazzi, nell’ormai scomparso campo di volley, avevano luogo.

          Ho rivisto il Don, qualche anno fa, quando del mio libro sull’esperienza della Casa del Fanciullo era stata tratta un’opera teatrale, e il tempo l’aveva toccato in profondità. Lo spirito era quello di un tempo, forte e corrosivo, capace d’interrogarti e chiamarti in causa, ma dello splendido viaggiatore che narrava la montagna mentre la stava camminando, rimaneva un corpo sofferente che si muoveva a fatica, sorretto dal mio braccio.

Nel 1972, prima ancora della promulgazione della legge sull’obiezione di coscienza al servizio militare e sull’istituzione del servizio civile, mi aveva accolto come assistente, pregiudicato e ricercato – e insieme a me altri obiettori – nell’Istituto per ragazzi con famiglie in difficoltà, abbandonati o con problematiche personali e sociali. E due anni dopo, nel ’74, fu ancora tra i primi enti, insieme alla Comunità di Capodarco, che richiesero a gran voce sia il corso di formazione al servizio civile, svoltosi a Roma, che l’impiego degli obiettori per un innovativo servizio di utilità civile nei loro enti stessi. La Casa del Fanciullo prima, e le sue emanazioni tuttora, si distinse per l’apertura e l’inserimento dei ragazzi nella scuola pubblica, così come nel sociale. Fu una grande stagione di maturazione e liberazione. Prima di tutto per i ragazzi, poi anche per noi. Che la terra ti sia lieve, Don.