Dedicato a chi considera un eremo-podere di montagna, denso di pratica spirituale e lavoro fisico, come una qualsiasi seconda casa… (il diario di 12 mesi è alla pagina haiku)
31 Maggio 2019
MAGGIO
Si fa presto a dire eremo, come se l’isolamento fosse un fiore all’occhiello, un segno di distinzione, una sussiegosa prerogativa di separazione dal mondo, ma il mese comincia con la festa del lavoro e dei lavoratori ed è proprio in questi posti che rimangono le vestigia del lavoro più duro, le memorie dei lavoratori, montanari, contadini e carbonai, che per secoli hanno consumato schiena e pane sui nostri tratturi, su ogni pendio terrazzabile, dissodabile, coltivabile, trasformabile in spiazzo circolare sul quale edificare la catasta di legna da carbonare. Raccontano ancora i vecchi testimoni che da tutta la Valvestino salivano colonne di fumo delle carbonaie. I sacchi di carbone, poi, su carri trainati da buoi percorrevano la valle e risalivano faticosamente per questo valico, dove passava la vecchia strada comunale che scendeva verso l’alto e medio Garda. Dove ora c’è un bosco lasciato ai tronchi caduti o tagliati e abbandonati insieme alle plastiche di un lavoro alienato e senz’anima, crescevano piccoli campi di granturco, segàboi, prati magri, pascoli. I bambini correvano da una parte all’altra della valle, da un fienile all’altro, da un terreno ad un’erta per portare pane e companatico ai padri, ai fratelli maggiori, ai nonni.
Con un po’ di legna in spalla e una semplice cartella guadavano torrenti e risalivano pendii, anche un’ora di cammino per recarsi a scuola. Le donne a rastrellare sui fianchi scoscesi, la cucina, la stalla, la casa, il bucato, le maternità, i rammendi, un lavoro che non finiva mai.
Ora le cose sono cambiate proprio grazie al lavoro dell’uomo. Le colonne di fumo, magari, si sono trasferite dalle carbonaie alle fonderie delle valli contigue, ma è innegabile che l’evoluzione s’è portata via la fatica agra, la miseria diffusa, le malattie endemiche. È quindi bene che si sappia cos’è un eremo come il nostro: un territorio fisico e spirituale immerso nel territorio del tempo della più vasta umanità che lo abita, lo lavora e interagisce con l’umanità ancora più vasta del mondo intero. Ieri come oggi – anche se sempre pochi per scelta e in migratorio calo per tradizione – e da esso trae libertà, ispirazione e giusto sostentamento. La quintessenza del primo maggio.