Eccesso chiama eccesso. Dopo mesi di siccità, ecco un aprile e un maggio gelidi di nubifragi e grandine che hanno riempito serbatoi, fiumi e laghi, ma rallentato seminagioni, verde e messi. Poi il giugno più secco e bollente a memoria d’uomo su queste montagne, nel Paese, in Europa e in giro per il mondo. Trentanove gradi all’ombra su questo valico sotto i mille metri e niente pioggia, vuol dire una cottura lenta dell’erba, che infatti stenta. Rigogliosa sul pendio rivolto a nord e protetta dalla siepe, spenta e giallastra su tutti i dossi esposti al sole. Rada e irsuta, alternata a macchie aride nel resto di quello che era il prato smeraldino raccontato nelle cronache autunnali e primaverili. Ai tre sfalci che in giugno, nelle stagioni umide, avevamo già cumulato, se ne contrappone uno solo tra la fine di maggio e l’inizio di questo mese. Il surriscaldamento si tocca con mano anche nelle notti afose, con i lucernari e le finestre spalancate, dove solo il refrigerio di un refolo d’aria fresca giunge dai boschi, insieme al lontano latrare di un cane.
Spicca il verde dell’orto, bagnato con l’acqua misurata delle cisterne. In un mese, solo un temporale intenso, ma isolato, accolto danzando nell’erba. Tutto sta crescendo, grato dell’innaffio che giunge alle prime ombre del crepuscolo o alle prime luci dell’alba. Le zucche spontanee, ancora una volta, hanno foglie enormi e una crescita sorprendente. Sanno dove spuntare. Pomodori e zucchine ci hanno già regalato le loro primizie. I cetrioli, pur molto abili a nascondersi sono stati scovati da Anna ed affettati nell’insalata croccante della colla vicino a casa.
La rucola è già alla seconda produzione. Le patate stanno per fiorire, le verze s’allargano sotto il sole e nella propria ombra. I porri, impettiti, stanno cumulando anelli e fusto. Sedani, carotine e prezzemolo svettano e verdeggiano. Piselli, fagioli e fagiolini sono ormai un intrico attorcigliato alle reti e ai pali di sostegno. Fa da contrasto la piccola valeriana e il profumato basilico con il gigantesco radicchio a cespi, involuto nelle sue spire. Su tutto vegliano un alberello di ginepro che abbiamo raccolto da terra e dotato di un sostegno, un melo nano che ha deciso di produrre proprio l’anno che ho usato la motosega per ridurlo, il pruno con i pochi frutti scampati alla tempesta, prima che Anna intessesse la sua ragnatela di reti antigrandine. Ma il cuore dell’orto è la piantagione di fragole rifiorenti curata da Anna nella bella stagione e difesa in inverno contro il gelo intenso della montagna. Sono le fragole sorelline di bosco negli interspazi non coltivati. Sono i lamponi che crescono allo stato brado e occhieggiano ai margini del recinto. Sono le more e il ribes allineati sul sentiero che porta a casa.
Frutti succosi, dolci e aromatici alcuni, aciduli altri, ma tutti puntuali nella macedonia colorata di stagione che riempie la ceramica d’arte a centro tavola e ancora attende un pittore che ne colga l’anima, non bastando una fotografia e tante bocche che la gustano.
Sì, “che tempi sono questi, nei quali anche solo parlare di alberi sembra un delitto”…
Dietro il casolare, però affacciato al sentiero pubblico, dove regnava un caos di pietre, massi e rovi, ma anche un principio di giardinetto tra le rocce certosinamente creato da Anna, fanno ora bellezza allo sguardo del residente e del viandante tre gradini in pietra e un corto vialetto in porfido che contornano il giardinetto e lo mettono in squisito risalto. Anna aggiunge periodicamente altre essenze negli interstizi terrosi, tra nude pietre e rocce muschiate, emendando il suolo con terriccio scelto nel cavo umido degli alberi andati. Era il nostro passaggio a nord-ovest e l’abbiamo trovato. Ora da lì si accede al lato nascosto dell’eremo, adiacente al bosco, e si può girare tutto intorno alla costruzione, senza interruzioni. Si può agevolmente falciare e tenere pulito, lavorare al tetto in caso di necessità, arrivare facilmente alla baracca dell’acqua e tenere lontana l’acqua di superficie dai muri della casa. Fare ordine a misura d’uomo nel caos senza alterare il senso di questo angolo scivoloso, dove il piede non trovava appoggi sicuri e nessuna regolarità pareva possibile si è rivelato più difficile per la mente che per la mano. Sono dovuto entrare in profondità nello spirito di quel piccolo caos di poche spanne, per riuscire a trovarne alla fine una chiave.
Il nostro decimo e ultimo ritiro di pratica zen, per questa stagione, iniziata a settembre e terminata in questo mese, è stato il più esteso. Abbiamo raggiunto l’eremo ancora venerdì sera. Alle 4 c’è stata la levata, nella brezza dei boschi e nel silenzio della montagna. Ci siamo immersi nello zazen e nel kinin nel buio, solo rischiarato dalle stelle, finché il chiarore dell’alba e lo strillo insistito di un piccolo picchio, sono giunti a noi.
vecchio ciliegio
nel cavo strilla al cibo
un picchio implume
Con un piccolo di picchio erano iniziate le cronache nell’estate di due anni fa (vedere alla pagina HAIKU il primo testo in senso cronologico). Con un piccolo di picchio che ha strillato da mane a sera, dallo stesso nido, dello stesso ciliegio, forse il primo rampollo di quello che fattosi grande volò via, chiudiamo il ciclo dei dodici mesi e ci fermiamo.
Mentre sto scrivendo, primi giorni di luglio, anche questo piccolo ha spiccato il volo ed è andato, regalandoci come koan le parole di quel maestro zen, Ma-tsu, che ci chiede: “come può essere volato via?”.
Nessun luogo da cui partire
Nessun luogo dove andare
Che volete, la libertà di una piccola comunità laica o religiosa che si alza in unità d’intenti prima dell’alba, pratica meditazione fino a sera, anche per più giorni, a beneficio proprio e di tutti e poi torna a casa, alla propria vita quotidiana, alle responsabilità personali, familiari, civili, nel corpo fisico di una più vasta comunità, nessuno escluso – nessuno escluso! – è qualcosa di impagabile.
cinque nel dojo
due merli sulla siepe
che manca all’Uno?