La neve ha coperto il prato e ogni lavoro è sospeso. Aleggia il silenzio invernale nell’immobilità delle cose.
Il trattore ha finito di fare la spola e ora è al coperto, vicino al grande ginepro che fa da portale tra il tratturo che sale dal prato e quello piano che porta da una parte al belvedere con vista circolare sui monti e sul Garda in lontananza, e dall’altra a casa. La carriola meccanica è rimasta nella rimessa, perché gli anelli di tronco più grandi sono stati ridotti in quarti con mazza e cunei, e poi caricati direttamente sul cassone del trattore. Spaccati e sistemati i ceppi. Accatastata la legna intermedia, pronta per il taglio nel vicino congegno costruito sul modello di quello visto a Lubenice, in Croazia, un’estate che eravamo in visita a quel borgo montano e antico, che sovrasta il mare.
La neve ha coperto il prato e le valli. Ha avvolto le rocce, tappezzato i boschi. Ha crestato i rami e le siepi, imbiancato il tetto e orlato la legnaia. Ciò che prima era separato, con i suoi contorni netti, ora è distinguibile solo come un piccolo rilievo del manto bianco. I piani orizzontali e obliqui hanno perso i loro secchi confini e passano dall’uno all’altro dolcemente digradando.
Famiglie di carbonai, di contadini e montanari si affollano intorno a noi quando meditiamo davanti al fuoco. Generazioni di avi, che qui sono passate, e di patriarchi da ogni punto del mondo si raccolgono attorno alla fiamma, nel nostro zazen. E noi non manchiamo d’inchinarci loro.
I mezzi degli ultimi cacciatori a lasciare la montagna nel suo silenzio invernale, hanno tracciato due solchi neri e paralleli nella neve, che marcano la sinuosità della via, in basso oltre la siepe.
Pochi alberi sui nostri monti possono uguagliare il monumentale portamento dei faggi. Sul sentiero che taglia la montagna, poco sopra l’eremo ce n’è una pianta sul ripido pendio boscoso che sale maestosa e verticale, senza perdersi in rami laterali fino a due terzi dell’altezza, per poi aprirsi, con diramazioni possenti, in una chioma che intercetta il cielo e il calore del sole. Altra vegetazione, nel raggio di una decina di metri, non è potuta crescere e vincere la competizione verso la luce. La corteccia compatta, senza rughe né scaglie, priva di nodi e bitorzoli, scevra da spuntoni secchi di vecchie ramificazioni, appena sfregiata da alcune iniziali incise, uniforme nel suo grigio e granulosa al tatto ci regala sempre la scoperta di una forza ammirevole del legno, la dimensione fisica di una vita oltre noi che pure è la nostra.
Altri alberi qua attorno s’innalzano lineari verso la volta: la betulla slanciata e altissima di fianco a casa, il giovane castagno in fondo al prato, quello imponente sulla via, e sorprendentemente il ginepro del portale, che ha lasciato l’andamento arbustivo tipico della famiglia per elevarsi come un fuso, nel folto dei rami che scendono fino a terra. Ma di tutti i fratelli minori del faggio, del castagno e delle piante che seguono pure linee verticali, espandendosi poi in chiome creativamente regolari nella loro irregolarità, più ancora sorprendenti del sorprendente ginepro devo dire dei due agrifogli, uno dietro il casolare e l’altro nel prato di fianco al giovane castagno.
I cespugli di un tempo sono ora alberelli dai quali si dipartono in modo ordinato e in tutte le direzioni rami decrescenti a cono. Per la loro forma e il verde intenso e scuro, potrebbero vagamente sembrare in lontananza dei piccoli abeti, ma quest’anno il loro carico di tonde bacche rosse – e che rosso! – li svela subito come agrifogli, perciò stesso ancora più natalizi. Sicché i rari viandanti invernali se li godono, sostando un poco in quieta meraviglia.
Respira i boschi
un unico silenzio
per valli e valli
fratel leprotto
attraversa il campo
bianco di neve
Cucina accesa
al rifugio nebbioso
soglia di passi